LUCIANO INGA-PIN – RIVISTA GALA 1966 –
In un clima di omogenea consapevolezza, e spinto a operare a cielo scoperto - senza perciò i facili compromessi e le altrettanto facili evasioni che visitano le molte stanze a doppia uscita della nostra pittura – il giovane Paolantonio si propone l’immagine critica dell’uomo contemporaneo. Una precisa e penetrante immagine ricavata da indagini pazientemente controllate con le emozioni e i turbamenti che di volta vi si affacciavano. La sua ultima personale milanese che in primo luogo lo ha rivelato a un pubblico attento ai vari fenomeni della pittura dei nostri giorni, ha posto inoltre la sua presenza accanto a quei pochi giovani che non si sono ancora lasciati incantare dai miraggi delle mode stagionali.un atteggiamento polemico? No, forse solo il volto di una educazione artistica che col tempo è diventata regola di vita, profilo spirituale. L’uomo di Paolantonio non è comunque il protagonista di un clamoroso fatto di cronaca né il prototipo di una nuova generazione spaziale bensì la radiografia più convincente di colui che è costretto a restare in bilico per non lasciarsi sopraffare dall’alienazione: una istanza morale che finisce per gettare una luce vivificante nel buio labirinto di una società condizionata e condizionante. Per questa ragione non ci interessano tanto i suoi modelli o, meglio, l’idea dalla quale proviene questo suo particolare atteggiamento; ci interessa piuttosto la precisa ubicazione di un problema che investe pure noi attraverso una sempre più sottile e accorta lettura di un dramma del quale fortunatamente non conosciamo ancora le ultime battute. Un nome perciò da seguire anche per una raccolta iconografica del nostro tempo e che già si presenta oltremodo interessante e altamente qualificata.
AURELIO NATALI – UNITA’ 14 maggio 1967 -
Dopo la breve apparizione dello scorso anno alla "Rizzato" Paolantonio espone le sue opere recenti alla Galleria Marina – Milano - Il suo discorso non è mutato, là egli presentava immagini umane dilaniate da una tensione interna o proiettate aggressivamente verso l’esterno, qui appaiono vegetali e insetti aggrovigliati e confusi in una lotta senza scampo, lance d’erba tese a difendersi e a ferire. E’ ancora quindi la durezza, il senso di aggressività che domina lo spazio dei suoi quadri. Un
aggressività senza dimensione umana, lucida e terrificante come solo è possibili
" dopo Auschwitz", filtrata ormai nel nostro tempo storico a condizionare ogni istante quotidiano. Un motivo che ben esprime, dunque, una delle problematiche di fondo del nostro tempo, la lotta sorda, all’ultimo sangue, per la sopravvivenza o la morte dell’uomo. Più densa di un tempo appare la stesura pittorica, intessuta di calde tonalità che rendono ricche le immagini senza violentarne l’acre valore simbolico.
MARIO RADICE – LA PROVINCIA – 28 Settembre 1967 –
Dipinge "a regola d’arte " secondo il senso antico di queste parole.
La galleria Pianella di Cantù , dopo la bella mostra di riapertura stagionale dedicata al valente artista Galliano Mazzon, ospita le opere del giovane pittore Cesare Paolantonio di Monza, residente a Sesto San Giovanni. Questo pittore trentenne opera nel solco attuale della neofigurazione . questa parola tuttavia viene sovente respinta dagli artisti che preferiscono parlare di ricupero (figurativo) e di verifiche.ma viene ricuperata una cosa perduta e altrettanto non si può dire dell’arte figurativa che non è mai stata interrotta e che probabilmente non morirà mai. Tentiamo di precisare dunque che cosa si intende sottintendere con la parola ricupero. Credo che si intenda sottintendere che qualcosa era andato perduto in arte nel periodo ventennale in cui hanno trionfato il fascismo l’impressionismo astratto, l’informale, il neoliberty, il neofloreale ecc. che cosa era andato perduto?. Il senso dell’ordine e, per ovvia conseguenza, erano andati perduti anche l’armonia formale e il ritmo plastico. Che cosa rimaneva?. Quasi nulla. Di fronte al caos, il disordine formale dal quale traevano vantaggi e profitto unicamente i mediocri, i furbastri e i truffatori di ogni risma, si può davvero parlare di ricupero. Se ne può parlare tuttavia, soltanto quando è rivolto alla rinascita dell’ordine formale. Infatti la figurazione senza ordine e senza ritmo nella strutturazione compositiva è identica al caos informale. A proposito delle opere di Paolantonio si può veramente parlare di ricupero perché gli animali che dipinge, gli oggetti le figure sono fatte "a regola d’arte" secondo il senso antico di queste parole. Paolantonio è un pittore serio e ben preparato.
Davanti ai suoi dipinti non passa per la mente il dubbio dell’inattuabilità come accade quasi sempre di fronte alle opere della neofigurazione, quando ripetono i pessimi esempi del periodo informale. Prevalgono i grigi e i bianchi nei quadri di Paolantonio e delicatissimi gialli e azzurri, mentre le forme sono sovente ben proporzionate fra loro. Segnalo "Testa di chirurgo" alcune "Teste di animali" e i bei disegni del "Trittico".
MIKLOS N. VARGA - MOSTRA PERSONALE GALLERIA RIZZATO WHITWORTH DEL 27 GIUGNO 1966 –
Oggi può essere compromettente parlare di pittura, di mezzi e fini e di forme e colori, introducendo nel discorso anche i problemi della coscienza morale, in connessione all’esperienza esistenziale, cui l’arte attinge per esprimere dei significati ontologicamente avulsi dal rigido controllo delle gerarchie socio-economiche.
Infatti il compromesso c’è ed è evidente. Basti osservare, in rapida sintesi, come le mode istituzionalizzate nel nuovo ordine della civiltà dei consumi di massa si sottomettano alla feicistica fruizione del confort per avere un quadro abbastanza fedele di certi orientamenti estetici. Inoltre le stesse mode impegnate a esibire
programmaticamente ogni specie di frivolezza materia con sufficienza tutta tecnologica, più che rispecchiare una realtà della materia finiscono per produrre degli oggetti e di conseguenza offrire ulteriori disponibilità ai fruitori di qualsiasi onaniatica nevrosi,esattamente il contrario di quanto vorrebbero far credere.
Il mito dell’avanguardia permanente induce spesso a commettere grossolani errori di valutazione, dopo cinquant’anni di invecchiamento:perché alla ragione comprensiva delle cose deve sempre corrispondere un’internazionalità costruttiva idonea a concettualizzarsi in espressione artistica. E il tempo è un arbitro che non perdona i ritardi storici. Questa premessa, che non vuole essere
un enunciato teorico-estetico, mi consente di avviare il discorso alla giusta temperatura sull’attività di un giovane pittore, Cesare Paolantonio: un pittore severamente impegnato a lottare con puntiglioso orgoglio contro le propri disaffezioni, in uno stato di civilissima solitudine; un artista che possiede ancora il gusto di dipingere figurativamente, proiettando al negativo le immagini tradizionali della natura umana per rielaborarle attraverso i filtri di una
modernissima e implacabile ottica interiore. Paolantonio non è un simbolista, né un neofigurativo e neppure un proconsole del realismo esistenziale: il suo mondo affonda le radici nella realtà morale del nostro tempo e, sia pure di riflesso ma in maniera del tutto in equivoca, accentua i contrasti fra l’area dello spirito e il terreno della materia, rappresentando la condizione dell’uomo attraverso l’analisi comparata delle sue contraddizioni. A suo modo
(vorrei dire suo malgrado) Paolantonio è un critico della società, del costume e delle istituzioni,ma la sua pittura è tutt’altro che infiorata di compiaciute metafore letterarie, sebbene predisponga alla lettura per quanto vi è di lirico nel racconto, fra pause accorate e ritmi palpitanti, in una stesura condotta con ammirevole equilibrio cromatico e compositivo. L’uomo interpretato da Paolantonio è un personaggio avvolto nella silenziosa nube dell’alienazione, che ha rinunciato ai sogni e all’ansia fluttuante del vivere quotidiano, in bilico fra l’essere e il nulla:
si direbbe forzatamente condannato a esplorare la propria nudità esistenziale nel disperato tentativo di recuperare qualcosa di sé che vagamente lo riconduca all’archetipo del suo tempo remoto, cioè alla perduta immagine di se stesso, quando nell’anfiteatro della storia recitava la parte di protagonista.
Quest’uomo, ora ritratto in atteggiamenti passivi, sia che brancoli nel vuoto in cerca di un alibi, sia che impugni lo scetro di un illusorio comando esibendo alle estremità due animalesche zampe dagli artigli acuminati, è sempre un essere fuori del tempo, costretto a ubicarsi fra gli spazi dell’irrealtà mendicando allo stato vegetativo il pallido sole di un’atavica presunzione mondana. Nel contesto dell’attuale crisi di valori, etici ed estetici, fomentata dalla repentina capitolazione di molti giudizi critici, Cesare Paolantonio sostiene nelle sue opere un efficace e convincente discorso figurativo: senza dubbio uno dei più seri contributi che al momento presente possano aspirare a sbloccare l’essenza della spiritualità nell’arte del drenaggio indolore, postulato da troppi messia, che sembra integrarsi alla perfezione nei piani pubblicitari della nevrosi consumistica offerta all’uomo-massa, il quale non è altro che l’identikit dell’alienazione. Nell’uomo-massa di Paolantonio coesistono diverse presenze ereditarie a testimonianza delle sue innumerevoli cadute, sempre successive alla promessa di una conciliante riabilitazione. Il tema escatologico del peccato originale viene qui sostituito dalla cieca fiducia nella scienza, passando così da un timore sacrale a un’alienazione conseguente al progresso scientifico, assai più pregiudizievole: perché la massificazione della coscienza disperde assieme ai correttivi morali anche il bisogno di ricostruire l’altra immagine,mediata dal pensiero, che conferisce all’uomo una presenza storica e un’unicità assolute rispetto a tutte le cose derivate dalla natura. L’indifferenza dei personaggi di Paolantonio richiama inoltre l’attenzione sul problema della sopravvivenza dell’arte.
Non è una prospettiva avveniristica, intendiamoci, ma un’ipotesi piuttosto frequente, appunto perché certi artisti votati all’autofruizione di se stessi sembrano voler radicalizzare i problemi espressivi scambiando i mezzi (dell’industria) per i fini (della coscienza morale), in un’allegra e disinvolta reazione a catena di negatività estremamente decorative. Ma se vogliamo considerare l’arte come la massima espressione che l’uomo lascia dietro di sé nella disperante volontà di voler sopravvivere a se stesso, allora l’artista deve impegnarsi ad accettare il dialogo con la natura, ironizzando persino sulla tragedia della propria condizione umana, per emanciparsi liricamente nella finzione di vedere quella realtà che in effetti appartiene alla sfera del sentire, ma che peraltro è più autentica di qualsiasi imitazione perfetta del vero naturale. E l’opera di Cesare Paolantonio costituisce una stimolante proposta a investigare oltre le apparenze di ciò che ambiguamente l’uomo moderno aspira a essere nell’inconsapevolezza del proprio destino storico.
MIKLOS N. VARGA -1966- 73 – e mostra alla GALLERIA POZZI DI NOVARA – Dicembre 1969
Il mito dell’avanguardia permanente induce spesso a commettere grossolani errori di valutazione, dopo altro sessant’anni di invecchiamento perché alla ragione "comprensiva" delle cose deve sempre corrispondere un’internazionalità "costruttiva". E il tempo è un arbitro che non perdona i ritardi storici.
Questa premessa, che non vuole essere un enunciato teorico-estetico, mi consente di avviare il discorso alla giusta temperatura sull’attività di un giovane pittore, Cesare Paolantonio (Monza 1937): un pittore severamente impegnato a lottare con puntiglioso orgoglio contro le proprie disaffezioni, in uno stato di civilissima solitudine; un artista che possiede ancora il gusto di dipingere figurativamente, proiettando al negativo le immagini tradizionali della natura umana per rielaborarle attraverso il filtro di una moderna e implacabile ottica interiore.
Paolantonio non è un simbolista, né un neofigurativo e neppure un proconsole del realismo esistenziale: il suo mondo affonda le radici nella realtà morale del nostro tempo e, sia pure di riflesso ma in modo del tutto in equivoco, accentua i contrasti fra l’area dello spirito e il terreno della materia, rappresentando la condizione dell’uomo attraverso l’analisi comparata delle sue contraddizioni. A suo modo ( vorrei dire suo malgrado ) Paolantonio è un critico della società, del costume e delle istituzioni, ma la sua pittura è tutt’altro che infiorata di compiaciute metafore letterarie, sebbene predisponga alla "lettura" per quanto vi è di lirico nel racconto, fra pause accorate e ritmi palpitanti che si esplicano in stesure condotte con singolare equilibrio cromatico e compositivo.L’uomo interpretato da Paolantonio è un personaggio avvolto nella silenziosa nube dell’alienazione, che ha rinunciato ai sogni e all’ansia fluttuante del vivere quotidiano, in bilico fra l’essere e il nulla, forzatamente condannato a esplorare la propria nudità esistenziale nel disperato tentativo di ricuperare qualcosa di sé che vagamente possa ricondurlo all’archetipo del suo tempo remoto, cioè alla perduta immagine di se stesso, quando nell’anfiteatro della storia recitava la parte di protagonista. Quest’uomo, ora ritratto in atteggiamenti passivi, sia che brancoli nel vuoto in cerca di un illusorio comando esibendo alle estremità due animalesche zampe dagli artigli acuminati, è sempre un essere fuori del tempo, costretto a ubicarsi fra gli spazi dell’irrealtà mendicando allo stato vegetativo il pallido sole della sua atavica presunzione di sopravvivenza. Nell’ uomo-massa di Paolantonio coesistono diverse presenze ereditarie a testimonianza delle sue innumerevoli cadute, sempre successive alla promessa di una conciliante riabilitazione. Il tema escatologico del peccato originale viene qui sostituito dalla cieca fiducia nella scienza, passando così da un timore sacrale a un’alienazione conseguente al progresso scientifico, assai più pregiudizievole: perché la massificazione della coscienza disperde assieme ai correttivi morali anche il bisogno di ricostruire l’immagine "altra", quella mediata dal pensiero, che conferisce all’uomo presenza e unicità assolute rispetto alle cose derivate dalla natura. L’indifferenza dei personaggi di Paolantonio richiama inoltre l’attenzione sul problema della sopravvivenza dell’arte. Non è una prospettiva avveniristica, intendiamoci, ma un’ipotesi piuttosto frequente, appunto perché certi artisti votati all’autofruizione di se stessi sembrano voler radicalizzare i problemi, o le problematiche, scambiando i mezzi (dell’industria) per i fini (della coscienza morale). Ma se vogliamo considerare l’arte quale massima espressione che l’uomo lascia dietro di sé nella disperante volontà di voler sopravvivere a se stesso, allora l’artista deve impegnarsi ad accettare il dialogo con le forze della natura, ironizzando persino sulla tragedia della propria condizione umana, per emanciparsi attraverso la finzione di "vedere" quella realtà che in effetti appartiene alla sfera del "sentire", ma che peraltro è più autentica di qualsiasi imitazione perfetta del "vero naturale". E l’opera di Cesare Paolantonio costituisce una stimolante proposta a investigare oltre le apparenze di ciò che ambiguamente l’uomo moderno aspira a essere nell’inconsapevolezza del proprio destino storico. Le direttrici di marcia dell’attuale congiuntura figurativa si richiamano spesso alla "civiltà dell’immagine", quale visualizzazione poetica di una comune aspettativa iconografica. L’immagine, si sa, comunica all’istante, propizia la assuefazione dei significati, strumentalizza a priori il "messaggio" coinvolgendo l’uomo (coscienza individua e collettiva) in una situazione di aperto confronto fra l’oggetto di consumo e la demitizzazione del medesimo. Così il quadro delle relazioni è aperto a qualunque accadimento, affatto disponibile a ogni genere di avventura "visiva".
Occhio e cervello fruiscono, in sintonia, lo stesso messaggio. E ciò non depone a favore dell’uso del cervello, evidentemente. D’accordo visualizzare, ma a patto che l’assunto estetico della cultura figurativa prescinda dalla depauperizzazione di certo simbolismo contestatario, tutto esterno, per concentrarsi all’interno di un’effettiva condizione esistenziale: la sola che può consentire all’artista di estrinsecare se stesso, contestando proprio quella "civiltà dell’immagine", che, tutto sommato, agli estetologi della contestazione è servita per avallare quel nuovo "culto dell’immagine" finalizzata di cui sono fedeli catecumeni. Cesare Paolantonio
è un pittore che non vuole assolutamente confondere l’ideologia con l’arte, le manifestazioni di massa con l’azione personale:non perché sia refrattario al rivendicazionismo dei giovani come lui, intendiamoci, ma in quanto si sente troppo impegnato a contestare in proprio, tramite la pittura, ciò che altri fanno a parole. Egli è un introverso, incline a porsi in condizioni di disagio quasi per convincersi della necessità di documentare le tesi delle proprie immagini nel riepilogo degli incontri-scontri con la realtà: così imposta la sua mozione figurativa ricavando dalla nozione del reale spunti ribellistici e interrogativi inquietanti. L’uomo vive al centro di questa visione , ne è l’indiscusso protagonista, il deux ex machina di ogni situazione-condizione eponima. Quindi se vogliamo recepire il significato di questa "presenza", dobbiamo orientare analiticamente la lettura delle immagini di Paolantonio partendo dall’osservazione, o dal rilevamento, dei dati fenomenici e psichici esemplati al presente fra le cangianti strutture del nostro vivere sociale al punto di influire sui caratteri comportamentistici dell’uomo-massa, avido consumatore di simbolizzazioni visuali. Dopo gli uomini in bilico, i personaggi togati dall’alienazione, le crocifissioni, gli uccelli degli anni 1964-67, la cui caratterizzazione iconica risentiva di un avvio prevalentemente grafico, anziché che addentrarsi in un proseguimento tematico di facile solvibilità, Paolantonio ha riveduto l’impostazione compositiva ( a partire dalla seconda metà del 1967) accogliendo nuove esperienze tecniche e problematiche di maggiore incisività pittorica. Ora la figura viene integrata all’ambiente, in un rapporto di convivenza dialettica, perdendo quelle frange naturalistiche che finora parevano condizionarne l’inserimento. La funzione dei piani acquista un andamento strutturale più compatto, senza concessioni al descrittivismo, nella piena valorizzazione dell’immagine, quale presenza-assenza di un concetto espresso in pittura. La serie chirurghi è un valido esempio, implicante varie considerazioni circa la natura dell’uomo e la provvisorietà temporale dei riti esistenziali: vita e morte esorcizzate dal bisturi del chirurgo, mani che frugano nelle viscere dell’organismo, diagnosi e prognosi affidate alla riproducibilità degli eventi. E poi, più recentemente, interni ed esterni surreal-metafisici, ritratti immaginari della condizione esistenziale, paesaggi e racconti onirici, e ancora uomini in bilico o sperduti, donne allo specchio, personaggi della compromissione alienante, alla ricerca dell’io, sottratti alla competizione dei fatti, immersi nel deliquio dell’impotenza. Quasi un’iconografia antropomorfica. Una panoramica "antigraziosa", ma densa di fermentanti umori e di vitalistiche tensioni: opinabile, certo, però in grado di sfondare la parete dell’indifferenza, cioè delle assuefazioni propiziate e dalla "civiltà dell’immagine" e dal "culto dell’immagine". Appunto perché la pittura di Cesare Paolantonio presenta un repertorio di immagini già sfrondate di ogni mitica suggestione contestatrice: è autentica espressione del dissenso civile, contro qualsiasi conformismo di classe. Pittura di valori e di concetti.
MIKLOS N. VARGA - Dieci anni di pittura, dal 1964 al 1974
Dieci anni di pittura, dal 1964- ak 1974, costituiscono già un probante tracciato evolutivo per inquadrare, operativamente, la personalità di Cesare Paolantonio (Monza 1937), sia in senso antologico che sotto il profilo autobiografico. Dicendo "autobiografico" non mi riferisco al luogo comune, alquanto mitizzato, che assegna all’artista il compito di identificarsi nella propria opera, recitandovi l’involontaria parte del giullare, ma intendo puntualizzare la specificità della sua azione, del suo "voler essere" che si estrinseca, filtrando le causali della meditazione e del ripensamento, nel "voler fare" semplicemente pittura. Il sostanza, cosa cerca un artista?. Nient’altro che di potersi esprimere compiutamente nel proprio linguaggio. E’ un problema di conoscenza (citando Renè Daumal, "la conoscenza di sé") o, meglio, di emancipazione dai "mezzi" strumentali per conseguire, autonomamente, la piena conquista dell’espressione immaginativa. Così a fronte delle "immagini" di Paolantonio mi sento compromesso per conoscenza diretta (convertita in due presentazioni scritte nel 1966 e nel 1969), alla prima istanza, quasi allo stato progettuale. Di conseguenza vorrei portare il discorso critico sui binari di quella contemporaneità di esperienze, memorizzate e rivissute dai pensieri alle opere, che ho potuto seguire in sintonia con Paolantonio, preferendo l’autocitazione alla lettura "a posteriori" delle opere: anche perché dovrei ripetermi, ribadire gli stessi punti di vista, non tanto per coerenza formale quanto per rispecchiamento critico, magari addirittura autocritico. Cercherò, pertanto, di suddividere in tre tempi, distinti ma non separati nel contesto antologico, il percorso creazionistico di Paolantonio, partendo dal consuntivo della prima fase quale introduzione agli svolgimenti successivi.
1964-66: la conoscenza di sé. L’arte è un esercizio dell’immagine, del vedere "altro" di sé: in ogni epoca, soprattutto la nostra. Però il mito dell’avanguardia permanente induce spesso gli "operatori estetici" (artisti, critici, mercanti, galleristi) a commettere grossolani errori di valutazione: perché alla ragione "conoscitiva" delle cose deve sempre corrispondere un’internazionalità "costruttiva".
Anche distruggere o rinnegare vuol dire "ri-costruire". E il tempo è un arbitro che non perdona i ritardi storici, né gli aggiornamenti culturali. Lottando contro il tempo, foriero di allettanti suggestioni, Cesare Paolantonio ha dovuto lottare, contiguamente, contro le proprie disaffezioni, con puntiglioso orgoglio, in uno stato di civilissima solitudine; pagando di persona, con la propria moneta fuori corso, ovviamente. Così il lungo tirocinio disegnativi, dalla fine degli anni 50 alla prima metà degli anni 60, gli ha consentito di promuovere una serie di verifiche introspettive, più autoanalitiche che autocritiche, ancora subordinate a un certo volontarismo programmatico. Era l’approccio alla "conoscenza di sé". Tempo passato. Il suo presente "reale" comincia nel 1964. Paolantonio non è un simbolista, né un neofigurativo e neppure un proconsole del realismo esistenziale. La sua percezione visionaria affonda le radici nella realtà morale del nostro tempo, accentuando o esasperando i contrasti fra i nutrimenti dello spirito e quelli della materia per rappresentare la condizione dell’uomo attraverso l’analisi comparata delle sue stesse contraddizioni. Infatti l’uomo (meglio, gli uomini in bilico del 1966) di Paolantonio è un personaggio avvolto nella silenziosa nube dell’alienazione, che ha rinunciato ai sogni e all’ansia fluttuante del vivere quotidiano, in bilico fra l’essere e il nulla, forzatamente condannato a esplorare la propria nudità esistenziale nel disperato tentativo di ricuperare qualcosa di sé che possa ricondurlo agli archetipi del suo tempo remoto, cioè alla perduta immagine di se stesso, quando nell’anfiteatro della storia recitava la parte di protagonista. Quest’uomo, ritratto in atteggiamenti passivi o brancolante nel vuoto in cerca di un illusorio comando esibendo alle estremità due zampe animalesche dagli artigli acuminati (es. nuovo re, 1966), è sempre un essere fuori del tempo, costretto a ubicarsi fra gli spazi dell’irrealtà mendicando allo stato vegetativo (es. Figura in ambiente clinico, 1966) il pallido sole della sua atavica presunzione di sopravvivenza.
Nell’uomo-massa di Paolantonio coesistono diverse presenze ereditarie a testimonianza delle sue innumerevoli cadute, sempre successive alla promessa di una conciliante o gratificante riabilitazione. Il tema escatologico del peccato originale viene qui sostituito dalla cieca fiducia nella scienza e nella tecnologia, passando così da un timore sacrale a un’alienazione conseguente al progresso quale "bene di consumo": in quanto la massificazione della coscienza disperde issieme ai correttivi morali anche il bisogno di ricostruire l’immagine "altra", quella mediata dal pensiero, che conferisce all’uomo una presenza e un’unicità assolute rispetto agli altri "prodotti" della natura. Del resto anche la natura si ribella alla gestione dell’uomo. Rami intrecciati come fili spinati, roveti che imprigionano il volo libero degli uccelli, cieli asettici come cristalli enfatizzano questa aspettazione disattesa: perché tutti i valori sono stati rimessi in discussione. Perciò l’indifferenza dei personaggi di Paolantonio richiama l’attenzione sul problema della sopravvivenza dell’arte, e non solo dell’arte quale avventura estetica dell’uomo.
Ma se vogliamo considerare l’arte quale massima espressione del pensiero che l’uomo lascia dietro di sé nella disperante volontà di voler sopravvivere a se stesso, allora l’artista deve impegnarsi ad accettare il dialogo con le forze della natura, ironizzando pesino sulla tragedia della propria condizione umana, per emanciparsi attraverso la finzione di "vedere" quella realtà che in effetti appartiene alla sfera del "sentire", ma che peraltro è più autentica di qualsiasi perfetta imitazione del "vero".
La natura e la naturalità dell’uomo, forse, sono ancora da scoprire in ultima analisi.
1967-69: la condizione negativa. L’immagine, si sa, metaforizza le "cose viste": comunica all’istante senza intermediazioni didascaliche, propizia l’assuefazione dei significati, strumentalizza a priori il "messaggio" coinvolgendo (coscienza individua e collettiva) in una situazione di aperto confronto fra l’oggetto di consumo e la demitizzazione del medesimo. Così il quadro delle relazioni è aperto a qualsiasi accadimento, affatto disponibile a ogni genere di avventura "visiva". Occhio e cervello fruiscono, in sintonia, lo stesso messaggio, eterodiretto, saturo di compromissioni. E ciò non depone a favore dell’uso del cervello, evidentemente. L’interferenza dei dati "negativi" nella positività del consumismo programmato diventa sempre più accentuata. In sostanza ci stiamo accorgendo che non tutto (in termini di consumo) funziona per il verso giusto. D’accordo visualizzare, figurativamente, ma a patto che l’assunto del "messaggio" prescinda dalla depauperizzazione di certo emblematismo tutto esteriore, volontaristico, per concentrarsi all’interno di un’effettiva condizione esistenziale: la sola che può consentire all’artista "figurativo" di estrinsecare se stesso, contestando proprio quella "civiltà dell’immagine" che, tutto sommato, agli estetologi della contestazione è servita per avallare quel nuovo "culto dell’immagine" finalizzata, in senso litografico, di cui sono fedeli catecumeni. Cesare Paolantonio non vuole confondere l’ideologia con l’arte, cioè non vuole fare dell’arte ideologizzata: non perché sia refrattario al rivendicazionismo dei giovani come lui, intendiamoci, ma in quanto si sente troppo impegnato a contestare in proprio, ricorrende alla pittura, ciò che altri fanno a parole. Egli è un introverso, incline a porsi in condizioni di disagio quasi per convincersi ( la "conoscenza di sé" a fronte della "condizione negativa") della necessità di documentare le tesi delle proprie immagini nel riepilogo degli incontri-scontri con la realtà; perciò imposta le sue mozioni creazionistiche ricavando dalla nozione del reale spunti ribellistici e interrogativi inquietanti. L’uomo vive al centro di questa visione, ne è l’indiscusso protagonista, il deus ex-machina di ogni situazione-condizione eponima. Quindi, se vogliamo recepire il significato di questa "presenza", dobbiamo orientare analiticamente la lettura delle immagini di Paolantonio partendo dall’osservazione, o dal rilevamento, delle nostre strutture ( o sovrastrutture societarie per stabilire fino a che punto agiscono negativamente sul comportamento dell’uomo-massa, avido consumatore di simbologie visuali. Dopo gli uomini in bilico, i personaggi e gli ambienti , gli uccelli e le crocifissioni degli anni 1964-66, la cui caratterizzazione iconica risentiva della matrice prevalentemente grafica, Paolantonio ha riveduto l’impostazione compositiva (dalla seconda metà del 1967) accogliendo nuove esperienze, problematiche e tematiche, anziché accontentarsi di un proseguimento tematico di facile solvibilità. Ora la figura viene integrata all’ambiente, vi si identifica perdendo quelle frange naturalistiche che finora parevano condizionarne l’inserimento. La funzione dei piani, paralleli o ribaltati, acquista un andamento strutturale più compatto. Le serie dei chirurghi e degli spekers (1968-69) costituiscono un’esemplificazione di certo rituale quotidiano. Vita e morte esorcizzate dal bisturi del chirurgo ( il diviso del dottor Barnard…..), mani che frugano nelle viscere dell’organismo diagnosi e prognosi affidate alla riproducibilità degli eventi; parole e immagini urlate al microfono, deformazioni de video offerte alla curiosità di milioni di spettatori farse e tragedie riprodotte sulle labbra dei portavoce ufficiali. Certo, la "condizione negativa" è il vissuto di tutti i giorni.
Così il pittore cerca di rappresentarla diversificandone i temi. Uomini in carrozzella e donne allo specchio (1968-69) sono altrettanti personaggi di un rispecchiamento esistenziale, parenti prossimi degli uomini in bilico. Di contro gli uomini nel paesaggio (1969), di ispirazione surreal-matafisica, introducono nuovi spunti da "racconto onirico" all’interno di una tematica in evidente evoluzione.
1970-74: l’altra realtà. La metamorfosi della realtà è presente in ogni nostra azione, conscia o inconscia. Più fissiamo le cose che crediamo di conoscere più "sentiamo", magari irrazionalmente, di non conoscerle affatto. Senza immaginazione creatrice non esisterebbero l’arte, la poesia, la filosofia, la scienza. Tutto ciò che sappiamo è frutto delle nostre facoltà immaginative. Pertanto, cinquant’anni dopo l’avvento del surrealismo, volendo fare un esempio "storico" abbastanza recente, possiamo dire che le metamorfosi del reale hanno contribuito, attraverso un corso accelerato di educazione visiva ( meglio, percettiva ), ad alternare la nostra presa di coscienza della realtà di fronte alle tautologiche ostentazioni del "vero". Oggi siamo infinitamente più "realistiche in passato. Se così non fosse non saremmo sbarcati sulla luna… eppure l’arte è sempre stata aldilà della realtà. Da parte sua, Cesare Paolantonio ha capito che il "senso della realtà non può essere istituzionalizzato, ridotto a equazione e, in quanto tale, reso operante entro un’area precostituita di "valori". Egli non vuole subordinarsi alle "cifre", alla coerenza forzata di rifare se stesso, capitalizzando al presente le proprie "immagini" passate. Così, all’inizio degli anni 70, il suo discorso pittorico viene evolvendosi in senso ciclico, secondo temperamento. Alle teste in tensione (1970-71) riproducenti la riduzione "meccanicistica" dell’umano, seguono le fusioni di corpi (1972-73) e poi gli avvenimenti interrotti e gli avvenimenti innaturali (1973). Questi ultimi, in effetti, erano stati preceduti da altre opere omologhe ( es. Avvenimento in parete, 1971-72 ), tributarie delle teste in tensione, tuttavia risolte compositivamente introducendo nuovi registri spaziali, in prevalenza tondi e ovali.
Ormai è chiaro che Paolantonio ha riassorbito ogni precedente volontarietà provocatoria per rendersi più disponibile all’azione del "voler fare" in tutta scioltezza. Il suo obbiettivo primario (peraltro rilevabile, fin dal 1966 nella contigua opera incisoria) resta comunque la sintesi del segno-colore orchestrata nello spazio, e’ vero, d’altro canto, che gli abusi sovente di descrittivismo, per eccesso di precisazione analitica; ma, di contro, non gli si può contestare l’autenticità problematica degli interventi consonante alla consequenzialità del "pensiero pittorico". La prosecuzione dialogica e analogica di questi temi, incentrati sulla sintesi della "sur-realtà" ( si potrebbe parlare di "nuovo surrealismo", mutatis mutandis…), si asplica in un’ulteriore successione ciclica, tuttora in atto: figure in restauro, 1973; teste larvate, cattedrali abitate, uomini abitati, tavole dei nuovi comandamenti, 1974. e’ un repertorio denso di accadimenti, di allegorie talvolta ostili alla prima lettura: una panoramica decisamente "antigraziosa", spoglia di qualsiasi ornamento consolatorio. Ma è consolante il mondo che viviamo? Forse entrando nel vivo di queste immagini chiunque potrà ricevere "qualcosa che vale" anche per se stesso, imparando a coniugare la pittura di Cesare Paolantonio con la propria immaginazione sul fronte dell’ "altra realtà".
RENZO MARGONARI – Mostra Personale Galleria Club Amici dell’Arte – Milano 1975 e Mostra Personale – Sondrio 1975
Pittore difficile, non tanto per la tematica, il dato iconografico, la peculiarità, ma per una scontrosità di carattere che è tutta espressa nei dipinti. Cesare Paolantonio si apprezza sopratutto per questo, prima d’altre valutazioni. La ritrosia dell’uomo, la mancanza di esibizionismo, la fuga dentro di sé sono rarissimi aspetti di un pittore riservato, raccolto in una dolorosa meditazione, ripiegato sul candido furore del giusto che non ha rivalse all’ingiustizia di cui, per tutti, si sente vittima. A tali caratteristiche, benché inconsuete, la critica risponde in genere con osservazioni d’ordine sociologico. La sua arte viene indagata sotto molti aspetti e prevale, però, lo sfogo soggettivo del commentatore cui -è evidente- Paolantonio fornisce un solido aggancio per requisitorie circa l’alienazione, il consumismo, il disastro ecologico, la solitudine, i mali orribili, il mostruoso quotidiano della nostra epoca occidentale industrializzata. Sfuggono, così, le note di una lettura più ravvicinata. La pittura è un linguaggio. Oggi se ne tiene poco conto. E’ una verità elementare che basterebbe da sola a restituire una dimensione credibile al ruolo di mediazione del critico: se i quadri si potessero raccontare sarebbe inutile dipingerli. Paolantonio è il pittore che ti mette in crisi perché puoi scrivere per giorni attorno alla sua opera senza venirne a capo, e proprio perché il linguaggio v’è implicato il modo assolutamente primario, determinante. Ma non è la scelta dei simboli, il repertorio dei segni, che bisogna mettere a fuoco per rendersi conto della sua sfera espressiva, ma il gesto pittorico in sé, nella sua immanenza, nella sua fisica oggettività: cosa che s’è prodotta ben di rado anche nel clima dell’informale quando tale atteggiamento della critica avrebbe dovuto essere il più diffuso perché sarebbe stato il più appropriato. Questo non solo in quanto Paolantonio è pittore d’una generazione bastarda ( quella del rifiuto dell’Informale e della non accettazione del Pop ), che si è formata in un periodo d’interregno tra avanguardie caratterizzanti, così da sviluppare un’espressività soggettiva, singolare, (che l’ ha condannata all’isolamento sia sul piano poetico, sia su quello operativo), ma anche perché l’artista milanese si serve strumentalmente della sua pittura prima di tutto per mostrare – a livello formale – il suo più privato aspetto: la volontà di non piacere, il non voler essere giudicato, l’inutilità di ogni tentativo dialettico che cercasse di convertirlo all’ottimismo, l’indifferenza alle problematiche contingenti, alle occasioni pittoricistiche. Una scelta di poetica, questa, che già in partenza aveva enunciato quando, tra i maestri che gli si proponevano come iniziale esempio, scelse Bacon cui si rifanno i suoi primi dipinti, ma già con una tipica anemia del colore, piegandone il messaggio ad una statica immagine della coscienza pervicacemente critica e pessimistica: un "caratteriale" della pittura, se così si può dire. Una sorta di sarcasmo difficile da definire e che si ferma ben al di qua dell’ironia, s’esprime, nelle opere di Paolantonio seppur non così distante da quella dimensione che non ci si debba pensare. E nemmeno si tratta dell’immagine della disperazione, anche se l’analisi è una fredda indagine della situazione psicologica dell’autore in chiave autobiografica. Neppure si tratta di una vera e propria esplorazione di questa sua propria contaminata pittura. E’ più facile dire ciò che questa pittura non è, insomma, che riuscire a focalizzare quel che è. Qui sta tutto il suo fascino scostante, sfuggente. Questi rossi che rossi non sono; questi azzurri, più grigi e violetti che altro; questi grigi fumosi che sembrano dipinti con la caligine odiosa e subdola delle giornate di smog nel cielo di Milano; questi colori da suburbio degradato da sgangherate industrie fatiscenti; questo paesaggio umano di filamenti lividi, di oggetti osceni come le protesi che imitano gli arti e le vene, i muscoli e la pelle; questi rimasugli innaturali di natura, falene, insetti, uccelli-fantasma raccontano. Bisogna dire che la pittura di Paolantonio non è nemmeno ambigua. Si potrebbe concludere che questa pittura "non è", se la viva e sottile struttura linguistica, prettamente pittorica, che la sorregge non ne affermasse perentoriamente l’essere. A questo risultato l’artista milanese arriva con una esperienza operativa notevole, complessa, vasta. Il repertorio dei suoi gesti si giova dell’intero catalogo della facoltà espressiva per segni e colori e ad un livello di rara competenza. Dell’uso dell’impasto a quello della pittura pulviscolare, dell’impiego di velature all’uso di "effetti" (alcuni dei quali ha personalmente elaborato). Paolantonio è un immaginatore che non si ripete, che non si adagia su una figurazione risultata particolarmente azzeccata, che non sfrutta i ritrovati, inquieti come un Ulisse che sa bene di non poter mai approdare alla sua Itaca. La sua è una pittura raffinata, per intenditori, una pittura che non è esplicita nemmeno nel risultato formale. E’ una pittura da indagare con attenzione, con cautela, pronti a ritirarci: spesso non è piacevole quel che scopriamo seguendo le immagini di Cesare Paolantonio.
ALBERICO SALA - IL GIORNO – 11 MARZO 1978 –
Nella grafica di questo autore meditativo, si combinano alto magistero tecnico, apprensione morale e richiami poetici. La sconnessione, la disarticolazione delle immagini , e degli istituti, avvertono che nulla sta più insieme, nonostante le ironiche graffe e i punti di sutura. In modo surreale, Paolantonio interviene sulla realtà, lucidamente, con particolari resi con precisione e nettezza . al decoro oppone la degradazione; dai frammenti esce un annuncio di una foglia.
ROBERTO SANESI – PERSONALE STUDIO D’ARTE GRAFICA – MILANO – 1981
Instabilità, slittamento del soggetto verso "un altro" da sé (soggetto? Oggetto?), dissezione e comparazione del frammento atteso e attendibile con l’inatteso, inganno ottico come metodo costante, figure come silhouettes da bersaglio fatto entrare in scena e subito immobilizzate con aria assorta, perdute e confuse in quanto le circonda e le contiene fino ad appropriarsi di qualche lacerto dello spazio di cui fanno parte modificandolo e modificandosi, per associazioni impreviste. Anche pensando a un verso della Waste Land ( "ma che è che ti sta sull’altro fianco?") si potrebbe forse stabilire, per questa misteriosa rappresentazione non priva d’ironia, una qualche teoria del doppio, o dello specchio, presentandosi ogni suo personaggio ( e si intenda per personaggio anche l’oggetto , come la mela , l’obelisco, la cornice ecc., nel significativo incontro fra organico e inorganico) al limite di demarcazione fra immaginario e simbolico, dove la riconoscibilità subito contraddetta è rintracciabile per allucinazione, con sospetto di anomalia. Teatro talvolta d’ombre, che indicano indirettamente una presenza "fuori", quindi un passaggio. Oppure di fondali ritagliati sui quali sia proiettato il sogno di una rappresentazione che ha esattamente le stesse figure recitanti, le stesse forme dei fondali, indicando in questo una dissociazione e una successiva sovrapposizione. Che è un modo per fissare la metafora. Fra il presunto reale e la sua immagine si instauraa una sorta di dialettica che abolisce il corpo e lascia emergere come primaria all’azione4 del rappresentare ((on più per imitazione del soggetto) la percezione di un malessere diffuso tanto più efficace quanto più è dato con distacco, con qualche freddezza dello sguardo: un aspetto che la tecnica stessa dell’incisione non fa che accentuare. Non escludendo che sia dovuto proprio anche a questa sottigliezza di tratti, a questa perizia tecnica, a questa esattezza di contorni, a questo equilibrio compositivo per il quale ogni immagine finisce col sembrare quasi una tavola dimostrativa, da prontuario, il tono fra didattico e giocoso di tanti di questi "ritratti" dove è una specie di riconoscimento rimandato a prevalere sulla stessa disgregazione, che non a caso è di tipo geometrico, lucidissima. Spesso silenziosamente metafisiche, assorte in un clima onirico di grande limpidezza, le messe in scena di Paolantonio denunciano che se anche ogni atto percettivo ha bisogno della mediazione del corpo, ciò che quel corpo significa è percepibile solo passandovi attraverso, così che è forse da cogliere in una presenza per assenza ( la traccia,l’ombra, il riflesso….) che omologa il corpo a ogni altro oggetto che lo circonda il varco per il quale si insinua il senso di estatica dissociazione evidenziata in ogni figura.
EVERARDO DALLA NOCE - SOLE 24 ORE – 26.1.1986
"Nature morte e altro", così il titolo delle "incisioni" che l’artista lombardo propone in questa vetrina in simultanea con quella della "Gallerita" Milano. Qui la lunga, coerente, ricerca grafica; là la serie degli oli e degli acquerelli che è panorama dei più recenti anni di lavoro e che rimarrà all’attenzione dei collezionisti e della critica. Paolantonio è un uomo d’ordine.
Un artista misurato, equilibrato, un uomo dalle idee piuttosto chiare. Nelle sue "Improbabili abitazioni" c’è infatti, la volontà di mostrare come le "cose" potrebbero andare e invece non vanno. Come il colore potrebbe nutrire in completo la fantasia, mentre in effetti coglie soltanto a metà. Da una panoramica totale che appare leggibile con poco impegno, c’è invece oltre la riga l’appello al rigore, all’attenzione che l’uomo oggi non ha, quindi il richiamo è importante perché salutare oltre chè d’obbligo. Non c’è dubbio che Paolantonio abbia lavorato in tutti questi anni in autonomia, mentre le mode e le Avanguardie hanno regolato il traffico della vita culturale. La forza di Paolantonio, nell’impatto col suo operare, è che in strada, al passaggio della ventata travolgente, c’era e proprio per sua natura, volutamente ha evitato l’essere protagonista per meglio recitare sotto l’ombrello e senza slogan. Il non recepire però non vuol dire rimanere ad osservare, ma accogliere, invece, le informazioni che fanno ricerca e che consentono di continuare a debuttare con se stessi ogni giorno senza patemi. Un po’ come Tosi, con gli abiti del Novecento e il pennello del Novecentouno. Libero, mai inquadrato, al fuori per fortuna dalle grandi manovre di un mercato sempre più difficile e geloso. Paolantonio ha collezionismo poetico, tra L’Apollinaire del "Bateau" e il calligrammista di Montparnasse. Ecco perché sogna ancora abitazioni improbabili e rose sboccianti in una colonna dall’anima grafica.
GIUSEPPE BONINI - MOSTRA PERSONALE ALLA PRO-LOCO DI CASALPUSTERLENGO –
MOSTRA PERSONALE Alla GALLERIA STUDIO TONI DE ROSSI - VERONA
La lettura di Cesare Paolantonio è, senza alcuna ombra di dubbio, "inattuale", racconto senza tempo e senza storia, narrazione sospesa eppure carica di profondi significati, una pittura comunque dalle chiare e facilmente individuabili matrici culturali. Esiste, infatti, un luogo d’ordine per quanto riguarda alcune fra le più stimolanti vicende artistiche del nostro tempo ed esso va individuato nel potere di fascinazione, e conseguente processo di seduzione, che fin dagli inizi ha esercitato la machine à peindre attivata da Giorgio De Chirico. Questa forza attrattiva , che rinviene delle motivazioni storiche anche in certe "emanazioni metafisiche" presenti nella tradizione pittorica italiana, almeno da Piero della Francesca in poi, origina molteplici possibilità e trova, quindi, differenti esplicitazioni presso i vari autori che da essa vengono avvolti e conquistati. Ogni rapporto istituito con il discorso dechirichiano risulta pertanto intrigante ed ambiguo, sempre mediato da una serie di circostanze e di intrecci di diverso ordine, come del resto inquietante e sottilmente perverso si manifesta, ad un’attenta dinamica, il lemma "metafisica". Perché, se letteralmente esso sta a significare " al di là delle cose fisiche", in arte – come pure in altri contesti – assume uno spessore semantico più ricco, che oltrepassa la pura e semplice etimologia, definendo un habitus mentale, uno status interiore, una precisa volontà di indagare intorno alla realtà, e soprattutto ai suoi misteri, nel tentativo , sempre vano poiché qualcosa comunque sfugge, di svelare e presentificare – per dirla con le parole del pictor optimus – "il demone in ogni cosa", l’ "enigma" nietzschiano. Ogni evento, ogni oggetto facente parte della quotidianità, ogni tratto, anche quello più apparentemente semplice della realtà, nasconde altro cela freidianamente un’altra scena. E differenti possono essere le sue interpretazioni e formulazioni. Già all’interno di quella che è stata l’esperienza storica della Metafisica propriamente detta, le posizioni dei singoli si delineano distanti e di segno anche contrapposto. A maggior ragione, dunque, ancora più lontani si rivelano gli esiti di coloro che di quel fortuito incontro ferrarese oggi conservano memoria nella loro attività artistica. Così, se per Paolantonio ci è parso necessario stabilire un quadro di riferimento, occorre ora precisare che, diversamente da altri autori che muovono piuttosto da affinità iconografiche, magari dal recupero di un repertorio d’immagini vagamente dechirichiano, egli giunge a comporre ed articolare una propria dimensione metafisica non solo per i magici silenzi e le ammalianti atmosfere che promanano le sue tele, ma attraverso un percorso affatto particolare, tutto inerente alla sua stessa pratica artistica. Intendiamo dire che la sua metafisica
Non è di superficie, bensì dato strutturale e strutturante, immanente al suo stesso far pittura; forse ne è la ragione stessa e più radicata. In questo senso recupera, in prima istanza, un assioma fondamentale anche per l’illustre maestro di Volos, il "ritorno al mestiere".
Non a caso anche Paolantonio è un solitario, non per questo fuori della storia, bensì un isolato per scelta, per cercare una condizione ottimale di lavoro, magari per meglio rispettare e realizzare quanto già nel 1830 Caspar David Friedrich prescriveva: " Chiudi il tuo occhio fisico, per vedere dapprima il quadro con l’occhio dello spirito. Poi fai risalire alla luce ciò che hai visto nella tua notte, affinché la sua azione si eserciti di ritorno su altri esseri, dall’interno verso l’esterno". Mentre Paolantonio lascia affiorare dai più reconditi meandri del proprio immaginario figure di una grande forza simbolica , mitica e di archetipo, le organizza in una solida struttura d’immagine, razionale. E questo non deve apparire in contraddizione perché è proprio in questa delicata fase di apparizione del patrimonio del profondo che assume importanza, per l’appunto, il mestiere, che occorre la lucidità intellettuale e la capacità di tradurre una spinta pulsionale in espressione compiuta e significante. In fondo l’intero percorso di Paolantonio, dalle paste grumose e grondanti della partenza alle stesure àplat attuali, potrebbe essere riassunto quale sofferta e problematica, densa di fecondi ripensamenti e animata di cartesiani dubbi, conquista di uno stile. Interpretano emblematicamente questo discorso quelle figure sempre in bilico, costantemente in uno stato di precarietà, che compaiono nei suoi dipinti, e lo conferma il ribaltamento di senso che opera nel momento in cui mette in scena quegli improbabili edifici, sbrecciati, aperti, in rovina. La casa non appare più quale simbolo di sicurezza, ventre materno, luogo di raggiunta tranquillità da contrapporre alle insidie del mondo, bensì diventa stilema di uno stato di inquietudine, di incertezza, di provvisorietà. Paolantonio lavora come un certosino, ha tempi e ritmi di esecuzione lentissimi, "tira" il colore al limite per non lasciare spazio all’improvvisazione ed eliminare quegli elementi spuri o ridondanti che potrebbero distogliere l’attenzione dalla sua "pittura di concetti". Perché il suo discorso è di tipo enunciativo, dimostrativo, ma di problemi tutti in terni alla pratica pittorica e al rapporto fra questa e il mondo. Non casualmente l’artista da tempo lavora su generi "classici" (natura morta, paesaggio, figura umana) e per cicli tematici, riducendo la sua figurazione a un enucleato numero di icone-chiave, ad alcuni motivi iterati che articola immagine per immagine, ed originando sempre nuovi percorsi di senso mediante quell’artificio che Deleuze chiamerebbe differenza nella ripetizione. Egli punta sulla prospettiva frontale e sulla immobilità per restituire delle figure una visione ravvicinata in grado di porne in evidenza il magico mistero e di proporne l’inquietante presenza. La figurazione, organizzata scenograficamente mediante degli artifici retorici che mostrano il grado di finzione della pittura. Il suo essere linguaggio, nasce come bloccata e in essa le forme si condensano in nuclei di singolare evidenza fino ad aprire su tutta la superficie del quadro, pervaso di una luce uniforme, tonale: il loro è un tempo controllatissimo, il loro è un dasein, un esserci nello spazio della tela, attraverso il quale assumono valenze esistenziali. Le immagini vivono al pari delle cose, presentandone l’altra realtà. La concezione dello spazio in Paolantonio è arcana ed impenetrabile, tanto lontana da ogni riferimento naturalistico, quanto modello mentale, non aprioristico, ma acquisito proprio attraverso la pratica pittorica. Per questo abbiamo parlato per lui di metafisica in quanto forza strutturante, per la capacità di originare, dopo un lungo processo di riflessione, lo spazio dell’alterità, il luogo tutto metafisico, in cui gli oggetti e le figure diventano pure e incontaminate idee, articolano solamente dimensioni mentali.
MARIA GABRIELLA SAVOIA – PRESENTAZIONE ALLA MONOGRAFIA – DISEGNI 1971-1998
Di Cesare Paolantonio è già stato scritto molto: della sua competenza di serio professionista e dello spessore artistico che lo fa parlare di sé solo attraverso il proprio lavoro; un lavoro svolto con ordine, misura, equilibrio e chiarezza, con cura meticolosa, con una grande profondità di pensiero e con una competenza tecnica che può indurre l’osservatore alla sorpresa ed anche allo sbalordimento. Dietro questo modo d’essere, così discreto e riflessivo, c’è sicuramente la saggezza dell’uomo che opera in piena autonomia e con la totale libertà artistica di solitario e isolato per scelta. Le opere su carta qui pubblicate fanno riferimento al lavoro eseguito in circa trent’anni di attività: dai primi fogli degli anni settanta per arrivare a quelli della fine anni novanta. Durante tutto questo periodo le sue chine su carta hanno affiancato l’esecuzione di quadri ad olio e l’incisione di splendide acqueforti. E’ il caso d opere come " Fuori uscita di un avanzo industriale", "Colonne portanti e fossili", "Manifesto di violenza", "Sulla parete", " Fatti separatamente", che alla tecnica della china e della nitro uniscono anche il collage.
Opere su carta degli anni settanta che vedono l’artista impegnato sull’annullamento di una, Fatti separatamente", che alla tecnica della china e della nitro uniscono anche il collage. Opere su carta degli anni settanta che vedono l’artista impegnato sull’annullamento di una, allora, scontata figurazione, alla ricerca del valore tonale, dell’essenza della forma; caratterizzate da una pregevole capacità di sintesi, che trova la massima esaltazione nella modulazione dei mezzi toni eseguita con gusto antico che, comunque, non mette mai in gioco la compattezza del costrutto. Sono gli anni della contestazione ed anche i contenuti di Paolantonio fanno riferimento alla natura, al sociale, all’insoddisfazione dell’ordinario ed alle problematiche della gente. L’immaginario di Paolantonio, caratterizzato di un’innata capacità di comunicare attraverso opere eseguite in base ad un rigore, concettuale e metodologico, veramente inappuntabile, la vede operare negli anni ottanta, in un mondo articolato dove la realtà supera i confini della visione, l’intuito nel pensiero raziocinante; sono di questo periodo: "Ingresso in parete e scala", "Anonimo e paesaggio a scale", "Osservatorio del vuoto", "Il doppio nel paesaggio" che, su carte prevalentemente trattate e con valori monocromi, si avvalgono anche della tecnica dello strappo e del collage. Il suo mondo onirico lo vuole inserito nel mondo del sovrareale, nel senso che i suoi soggetti si muovono in originali architetture e in straordinari percorsi labirintici dai quali è complicatissimo sfuggire: metafore del nostro vivere quotidiano. Fantascientifici e apocalittici scenari, spazi nei quali vivono personaggi condannati ad una immaterialità, ad una diafana trasparenza, che trovano la loro fisicità e la corporeità della materia solo nella delimitazione delle linee di margine. Precisata, a volte, da importanti condensazioni di macchie, le carte degli anni novanta vedono l’iscrizione del segno che conferisce allo spazio sibilline profondità. I contrasti nell’esecuzione delle sue opere, hanno una inequivocabile importanza, come nel caso di " All’interno il maligno 82, "All’interno un volatile", "Simbiosi negativa" degli anni novanta. In tutta la sua opera grafica è dominante il gioco di contrasto tra nero e bianco, tra notte e giorni, tra male e bene, tra odio e amore come tra piano o solido; contrapposizioni che possono comprendere la visione di una realtà empirica, a volte illusoria, ma che si possono anche basare su una realtà logica. E proprio nella spontaneità del segno, invero così intransigente, la sua figurazione acquisisce finanche una nuova prospettiva non mai condizionata da disagevoli vincoli tecnici come in "Metamorfosi 10", "Parete enigmatiche 9", "Metamorfosi 11", nelle quali l’immagine bidimensionale si spezza, e si rinfrange creando effetti di tensione, Paolantonio è, come si diceva, anche finissimo pittore; non si può quindi evitare di parlare di "Architettura funeraria", "Dipinta sul cavalletto piatto", "Ritratto di un sole spento", "Uccello squamato ad incastro", le sue opere su carta eseguite a tecnica mista nelle quali prevale l’uso finissimo dell’acquerello.
GIACOMO SCANDELLA – PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA NELLA SALA CONSIGLIARE DEL COMUNE DI GROMO
Di solito quando qualcuno presenta un’esposizione d’arte, comincia col dire: " Sono molto felice e onorato di potervi presentare…" Invece io dico che sono molto preoccupato perché non è facile presentare l’opera di Cesare Paolantonio per almeno tre motivi: la sua complessità pur nella linearità di un percorso; la sua diretta onestà intellettuale che nulla concede alla cosiddetta "licenza della forma" in un’opera che risulta essere impegnativa nella comprensione e ricca di significati e di motivi di riflessione; la qualità e l’accuratezza del segno. Cesare Paolantonio, in più di cinquant’anni d’attività artistica ha esposto in più di 30 mostre personali e in più di 70 collettive in lombardia, in Italia e in Europa, con una notevole serie di recensioni. Di lui hanno scritto critici d’arte di primo piano tra i quali, Raffaele De Grada, Mauro Corradini, Alberico Sala, Francesco Frangi, Giuseppe Bonini, per citarne alcuni. E’ stato collaboratore per 20 anni del " Sole 24 Ore " pubblicando le sue opere grafiche. Numerose sono le edizioni letterarie illustrate con le sue incisioni, alcune delle quali sono state raccolte insieme ai disegni in cataloghi di grande interesse. Ha utilizzato diversi mezzi e tecniche espressive pienamente funzionali alle sue ricerche: dalla pittura ad olio su diversi supporti, alle incisioni (acqueforti, linoleografie, xilografie, disegni a china e con altri inchiostri, integrazioni con gli acquerelli. Nel presentare una parte dell’opera di Cesare Paolantonio mi viene in mente una frase che Cezanne scrisse a Bernard a proposito delle recensioni e discussioni, che è meglio tenere presente. " Tutte le discussioni sull’arte sono pressoché inutili… il letterato si esprime con delle astrazioni, mentre il pittore rende concrete per mezzo del disegno e del colore le sue sensazioni e percezioni". Un chiaro invito al contatto diretto con l’opera tenendo presente che l’artista fa emergere dal suo interno le sue letture della realtà e della sua interiorità. Ha detto un critico che la pittura di Paolantonio è "inattuale" senza tempo e senza storia…narrazione sospesa" (Bonini) ma si possono individuare chiaramente le sue matrici culturali che sono quelle della pittura metafisica e di quella del surrealismo ad essa legata. Un suo catalogo ha come titolo "Dimensione metafisica" da intendersi io penso, come "Habitus mentale" volontà d’indagine intorno alla realtà. Ho parlato di matrici, quadri di riferimento ma Paolantonio ha compiuto un percorso tutto suo, non molto inquadrabile, un lavoro solitario, ostinato, strettamente personale, incalzante che non si può catalogare con un’indicazione come quella metafisica che pur ha attraversato come percorso non solo l’arte moderna. Da una parte l’arte come pura metafisica senza legami con la realtà naturale, che colloca forme senza sostanza vitale in uno spazio inabitabile, in un tempo che non è eterno ma immobile. Una presenza ambigua inquietante, contraddittoria come una sfinge che pone a noi uomini, convinti di sapere tutto, degli enigmi facilissimi ed insolubili. La sua ragion d’essere è l’essere in contraddizione dove lo spazio si confonde con le cose, il principio logico si ribalta nel non logico. Basta vedere lo spazio come categoria fondamentale dell’opera di Paolantonio per ritrovarvi queste caratteristiche. Dall’altra è l’irrazionale e l’inconscio che emerge perché nell’inconscio si pensa per immagini e l’arte, che fabbrica immagini, porta alla superficie, Paolantonio dice "quasi automaticamente, salvo incidenti di percorso", i contenuti profondi che l’artista sembra trascrivere in modo automatico. Ma è l’urgenza di esprimersi che dà quest’impressione. L’arte non è quindi solo rappresentazione ma comunicazione vitale, anche mediante simboli. L’immagine si sviluppa nel quadro attraverso un gioco complesso di associazioni analogiche che danno l’impressione all’artista di assistere da spettatore allo sviluppo del proprio sono-pensiero. Paolantonio nella sua opera affronta temi classici come nature morte, paesaggi, figure, organizzati in cicli che gli servono per approfondire tornandovi sopra, modificando, aggiungendo in una continua ricerca che non gli lascia requie, neppure nella tranquillità del suo studio di Gromo. Non c’è niente di ripetitivo, ma è un percorso rinnovato nel quale l’immagine è un continuo ritorno sulla realtà, sulla contemporaneità. L’immagine innovativa porta il lampo, disvela il mistero, fonte e quintessenza dello spirito, definita con strumenti classici ma frutto di un lavoro preciso, lento, misurato. La sua pittura è una sorta di sfida ai critici ai visitatori per offrire la propria libera interpretazione lasciando emergere dal profondo, senza opporre resistenza, le nostre pulsioni, il nostro disorientamento che ci obbliga ad approfondire in un continuo rimando tra sentire e vedere, superando la possibilità del vedere intasato da immagini che escludono il sentire. Insomma una pittura che stimola l’autocoscienza. Non a caso Campanella , filosofo, affermava che l’autocoscienza è il fondamento della metafisica. Il tutto avviene in Paolantonio, in uno straordinario equilibrio e rigore della composizione, nella chiarezza e nella solidità della struttura compositiva. Pare un controsenso, ma è così. Basta guardare i suoi nitidi elegantissimi disegni ed acquerelli in cui il segno grafico pulito ed essenziale guida all’interiorità della forma. La stessa cosa si può dire delle sue straordinarie incisioni nelle quali il mezzo tecnico è straordinariamente funzionale all’espressione. Dominano i segni obliqui falcati, uncinati dei becchi taglienti nelle inquietanti metamorfosi di umani dalle teste mutanti. Ecco la continua presenza di sfere, di occhi, di iridi, sfere che fanno da richiamo a fori che generano dall’interno punte, sfere uova, sfere testa. Viene spontaneo il rimando alle sfere di cristallo, alle insolite concrezioni, alle inquietanti creature, ai mostri di Bosch, soprattutto nella straordinaria composizione del "Trittico delle delizie" del Prado. La citazione del pittore di Hertogen nella pittura metafisica e surrealista non è casuale anche parlando dell’irrazional-metafisico Paolantonio. Anche in questi 28 tra disegni ed acquerelli si trovano i motivi fondamentali dell’opera di Cesare Paolantonio, immersi in uno spazio differenziato, illusorio complicato dalla sovrapposizione tra esterno ed interno, nell’ambiguità della pittura che li esprime. Lo spazio che per Paolantonio è pulizia, civiltà, diventa pieghevole illusorio, dominato da composizioni monumentali pieghe o costruzioni di un instabile labirinti. Il grande rigore della forma definita dal sottile segno o tratteggio è alleggerito dagli acquerelli che modulano il colore. Sulle rose piegate, aperte, sfumate dell’acquerello, monumentali come torri babeliche ma raffinatissime e leggere, cresce un enigma che noi vediamo e sentiamo allo stesso tempo. E’ il sentire dell’artista, un urgenza indifferibile che non gli concede pause e che lui vuole ostinatamente esprimere senza nulla concedere alla facilità e alla superficialità. Cito lui Cesare Paolantonio "Un quadro è come un figlio più è difficile più ti appassiona e ti rende esigente" perché la sua urgenza interna deve essere espressa nella forma migliore.